Mi saluta di lontano agitando il bastone. Sulla maglietta, il volto di David Bowie è allargato sulla sua pancia gonfia. Ci sediamo. Il suo infusore ronza leggermente, lui lotta contro una tosse insistente e pervicace. È simpatico.
Inizialmente mi domando se ha davvero senso porgli domande: mi pare un po’ fuori, distratto, confuso. Mi rendo conto presto che invece è il contrario: è presente, attento, mi ascolta, mi “vede” – anzi, non gli sfugge nulla. L’aria svanita è una cortina fumogena dietro la quale si nasconde un uomo che sente, pensa, realizza.
Parliamo seduti su due poltroncine scomode. Ogni tanto, quando lo vedo fare una smorfia di dolore, digito una dose sul suo infusore, e aggiungo un po’ di morfina a quella che già gli circola nelle vene. Dobbiamo, dico, aggiustargli la dose gradualmente, altrimenti dormirà tutto il giorno. Mi dice, cercando le sigarette che non trova e che non potrebbe fumare, che lui la morfina non l’ha mai usata: solo alcool, cannabis, e ansiolitici, quelli sì, a volte un’anfetamina in gioventù, robaccia, poi solo alcool, e quello gli è costato i figli. “Da quanto non li vedi?” “Non tanto. L’anno scorso. Sono grandi ormai.” “Digli che vengano a trovarti.” “Qui? No, aspetto di tornare a casa. Di smettere con questa roba.” Indica l’infusore col dito giallo di nicotina. Ha un sorriso disarmante.
Non posso fare a meno di riflettere su questo strano fenomeno, la paura della dipendenza alla fine della vita. Quelli che, da sani, si sono fatti di tutto, davanti agli oppioidi che li liberano dal dolore terminale parlano di smettere. Quelli che, da sani, non hanno mai preso un’aspirina, temono di diventare “drogati” quando gli resta poco da vivere, e lo sanno.
Gli dico che non deve preoccuparsi di questo, l’importante è ottimalizzare la dose e poter tornare a casa senza dolore. Ne conviene. Un’infermiera fa capolino, mi vede, mi sorride complice: lo adorano tutte. “Non abbiamo un appuntamento dopo?” le dice. Lei ride, scuotendo la testa, esce. La sua cartella clinica è un’odissea, un campo di battaglia, un armageddon. Mi chiedo come fa a restare in vita. Lui invece mi chiede se ho visto il programma di un festival – vuole andarci con un suo amico. È una trappola: vuole vedere cosa gli rispondo. Gli rispondo che, secondo me, sarebbe un’idea migliore far venire i suoi figli e magari, se riesce, andare al festival con loro. Mi guarda con un mezzo sorriso, un paio di secondi più del dovuto – ha capito.
Il suo nome appare sull’ultima pagina del giornale neanche tre settimane dopo. Il festival, quello, non è ancora iniziato.