Archive for settembre 2013

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Dipendenze

29 settembre 2013

Mi saluta di lontano agitando il bastone. Sulla maglietta, il volto di David Bowie è allargato sulla sua pancia gonfia. Ci sediamo. Il suo infusore ronza leggermente, lui lotta contro una tosse insistente e pervicace. È simpatico. 

Inizialmente mi domando se ha davvero senso porgli domande: mi pare un po’ fuori, distratto, confuso. Mi rendo conto presto che invece è il contrario: è presente, attento, mi ascolta, mi “vede” – anzi, non gli sfugge nulla. L’aria svanita è una cortina fumogena dietro la quale si nasconde un uomo che sente, pensa, realizza. 

Parliamo seduti su due poltroncine scomode. Ogni tanto, quando lo vedo fare una smorfia di dolore, digito una dose sul suo infusore, e aggiungo un po’ di morfina a quella che già gli circola nelle vene. Dobbiamo, dico, aggiustargli la dose gradualmente, altrimenti dormirà tutto il giorno. Mi dice, cercando le sigarette che non trova e che non potrebbe fumare, che lui la morfina non l’ha mai usata: solo alcool, cannabis, e ansiolitici, quelli sì, a volte un’anfetamina in gioventù, robaccia, poi solo alcool, e quello gli è costato i figli. “Da quanto non li vedi?” “Non tanto. L’anno scorso. Sono grandi ormai.” “Digli che vengano a trovarti.” “Qui? No, aspetto di tornare a casa. Di smettere con questa roba.” Indica l’infusore col dito giallo di nicotina. Ha un sorriso disarmante. 

Non posso fare a meno di riflettere su questo strano fenomeno, la paura della dipendenza alla fine della vita. Quelli che, da sani, si sono fatti di tutto, davanti agli oppioidi che li liberano dal dolore terminale parlano di smettere. Quelli che, da sani, non hanno mai preso un’aspirina, temono di diventare “drogati” quando gli resta poco da vivere, e lo sanno. 

Gli dico che non deve preoccuparsi di questo, l’importante è ottimalizzare la dose e poter tornare a casa senza dolore. Ne conviene.  Un’infermiera fa capolino, mi vede, mi sorride complice: lo adorano tutte. “Non abbiamo un appuntamento dopo?” le dice. Lei ride, scuotendo la testa, esce. La sua cartella clinica è un’odissea, un campo di battaglia, un armageddon. Mi chiedo come fa a restare in vita. Lui invece mi chiede se ho visto il programma di un festival – vuole andarci con un suo amico. È una trappola: vuole vedere cosa gli rispondo. Gli rispondo che, secondo me, sarebbe un’idea migliore far venire i suoi figli e magari, se riesce, andare al festival con loro. Mi guarda con un mezzo sorriso, un paio di secondi più del dovuto – ha capito. 

Il suo nome appare sull’ultima pagina del giornale neanche tre settimane dopo. Il festival, quello, non è ancora iniziato. 

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L’imperfezione

24 settembre 2013

 

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La vita per compiersi non ha bisogno della perfezione, ma della completezza. Di questa fa parte la spina nella carne, il tollerare l’imperfezione, senza la quale non si va nè avanti nè indietro.

 

C.G. Jung, da “Psicologia e alchimia”

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Il sapore dell’alito (sonetto)

14 settembre 2013
Quando ti sveglio sa di sonno ancora
di notte breve, e ha ancor di me l’afrore
e se ti bacio nuovamente, allora
possiam ricominciare per tre ore.
 
Ma t’alzi, e se t’assaggio dopo un’ora
di brioscia e caffè sento il sapore
e con l’andar del giorno ancor migliora
(sempre che non mi venga il raffreddore):
 
all’una sa di pesto e fiorentina
alle quattro di benzodiazepina
al parco sa di vento e caramella
 
a cena, di taleggio e mortadella.
E quando mezzanotte s’avvicina
torna a saper di me, come a mattina.
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Distacco

11 settembre 2013

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Dopo il rendez-vous nello spazio, i due moduli si staccano e continuano a navigare separatamente. Nessuna comunicazione radio. Niente internet. Niente posta. Diversi alfabeti.

Restano le parole che non possiamo leggere, qualche foto. Dei braccialettini tutti uguali intorno al polso.

Ieri sera Kim Sun Yi canticchiava tra le lacrime la canzone che ha scritto mia figlia.

 

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È possibile

10 settembre 2013

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Lo spettacolo inizia così: un ragazzo coreano  fa suonare una melodia al carillon: l’Internazionale. La nostra origine comune. Da lì ci siamo sviluppati in maniera così diversa, la socialdemocrazia norvegese e la dittatura militare della dinastia coreana. Oggi è il 9 settembre,  il giorno delle elezioni parlamentari in Norvegia, ma anche della festa nazionale nordcoreana. E stasera siamo qui, in un work in progress, qualcosa di abbozzato, non finito ma in atto – una provocazione, ma anche un manifesto: è possibile cercare il contatto e trovarlo oltre le diversità. Ci siamo, e siamo insieme. Perchè quale sarebbe l’alternativa?

Una settimana fa, il giorno dell’inizio delle prove, il regista improvvisamente si è buttato dal palcoscenico. Sapeva che i ragazzi erano sotto. Tutti, per istinto, si sono buttati a impedirgli di farsi male. Lui lo sapeva, si è fidato. Finchè tutti si sono fidati di tutti, in una settimana di prove intense, risate, sudore e stanchezza.

Ci muoviamo tra la serietà e la parodia. I ragazzi norvegesi hanno preparato, a loro scelta e secondo le loro abilità, un modo di rappresentare un partito politico. Mia figlia e un’amica hanno scelto i verdi – si sono studiate il programma, hanno preparato un discorso, una canzone. Ma questo è anche un freak show: a metà del suo discorso, mia figlia comincia a rovesciare le parole, le dice tutte all’inverso, fino alla conclusione. Per gli ascoltatori norvegesi sembra improvvisamente una lingua senza senso, mentre i coreani non percepiscono neanche il cambiamento: era già tutto incomprensibile. Così come per noi sono incomprensibili i testi delle loro canzoni, eseguite con straordinaria abilità musicale. I sottotitoli sullo schermo ci dicono qualcosa sui testi: siamo il paese migliore del mondo. Ma non eravamo noi, il migliore del mondo?

Contrasti. La perfezione tecnica stilizzata, i canoni da un lato e l’improvvisazione dei monologhi dall’altro. Eppure, tutto sembra trovare una continuità, un senso? In un angolo, un ragazzo norvegese che fa le frittelle. I video propagandistici che vediamo sullo schermo sono veri o sono parodie? I discorsi dei nostri politici sono veri o sono parodie? I fuori programma: mia figlia che, già in scena, si fruga in tasca per qualche interminabile minuto alla ricerca del plettro per il suo ukulele. Uno degli “attori” norvegesi va in bagno dimenticando di togliersi il microfono. Il pubblico sente tutto. La minuscola sassofonista coreana che sbaglia una nota e le lacrime le scorrono sul viso. L’incongruenza delle cover di A-Ha in coreano. La grazia accattivante della danza delle bambole.  Quello che continua a sfornare frittelle.

Dopo lo spettacolo, alla festa, ci mescoliamo e parliamo. Mr. Lu e Mr. Li, i maestri coreani, mi dicono che in Corea il pop è considerato il genere musicale più nobile, perchè appunto musica del popolo. Per pop intendono tutto: sia la musica popolare tradizionale, che il pop internazionale, che una fusion tra i due.  Fanno cover di tutto: Celine Dion, Beatles, canzoni russe, ma soprattutto hit internazionali. “Can you feel the love tonight?” in coreano seguito da “Katjuscia” in russo, per dire, seguito da Brahms al violino con accompagnamento di batteria, sassofono, basso e tastiere. Bellissimo. Qualcuno ha qualcosa da insegnare all’altro? Le cose, per fortuna, non sono più così chiare.

Al momento della consegna dei regali mi ritrovo, grazie alla timidezza dei genitori norvegesi, improvvisamente sola. L’interprete mi aiuta a pronunciare i nomi dei ragazzi, che mi si raccolgono intorno, con Mr. Li, Mr. Lu e il funzionario che li accompagna. Ricevono i regali, si inchinano e restano lì: realizzo con terrore si aspettano un discorso. Da me. Mi sta davanti il rappresentante del Comitato per le Relazioni Culturali Internazionali della Repubblica Democratica di Corea, mi stanno tutti davanti e io devo pronunciare un discorso. Vedo i visi dei ragazzi, vicinissimi, come vibranti nei loro sorrisi: dico che è stato un grande onore e una grande gioia per noi averli qui, che sono bravissimi. Vorrei dire altro ma mi emoziono e mi viene da piangere. Se ne accorgono tutti. Passa come un brivido, un sussurro rapido, e me li ritrovo tutti addosso in un abbraccio collettivo, Mr. Lu, Mr. Li e funzionario compreso.

Le parole sono importanti, ma soprattutto sono inutili.

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È possibile? (2)

6 settembre 2013

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Kim Sung Yi ha 11 anni ed una voce meravigliosa. Si mette in posa, stampa un sorriso da scena sul suo piccolo viso e parte la canzone. Ne ha molte in repertorio, tutte musicalmente impeccabili, e tutte con lievissime variazioni sullo stesso testo: Kim Jong-un è il nostro Sole, siamo il paese più bello del mondo grazie a Lui, lode infinita a Kim.

Dopodichè c’è una pausa nelle prove, e tutto cambia: gli interpreti perfetti, la violinista che si esercita sette ore al giorno, la suonatrice di quello strumento di cui non so il nome che mi ricorda le arpe ceche, il percussionista, si trasformano di nuovo in ragazzini come gli altri. Fioriscono le amicizie, gli amori. Specialmente tra le femmine volano i bigliettini, cuori, fiori, il tuo nome incorniciato da uccellini. Le norvegesi non sono abituate al contatto fisico e sono come giovani betulle, legnose e abbagliate dalla pioggia di carezze, bacini, complimenti delle coreane. Non potendo comprendersi a parole, l’affetto si esprime a gesti: hai sempre una coreana che ti tiene la mano, se non due. Mia figlia sa ora tre parole  – significative – in coreano: “bella”, “capelli” e “sole” (quest’ultima riferita per antonomasia a Kim Jong-un).

I maschi fanno gare di percussioni, si insegnano mosse di tae-kwon-do: l’aspetto fisico, il corpo, anche lì è protagonista, ma trova altri canali di espressione.

I nordcoreani, contrariamente a quanto ci immaginavamo perchè credevamo alle immagini della propaganda, non sono affatto obbedienti e disciplinati. I “nostri”, pur se allevati nello spirito steineriano e socialdemocratico, lo sono molto di più. I coreani sono disciplinati in scena, quando si esibiscono e quando fanno esercizio. Per il resto, fanno un baccano della miseria, e i loro maestri, interpreti e sorveglianti Mr. Li e Mr.Lu (non scherzo) hanno il loro bel daffare a imporre la loro autorità. Soprattutto sono affascinati da tutto ciò che è cellulare, e in particolare da una cosa, che spesso è l’unica parola che sanno in inglese: GAME. Se appena intravedono un telefonino, la parola è quella: game? Tu glielo presti, e loro possono giocare e giocare fino a scaricartelo. Poi te lo rendono con un sorriso, dopo aver affondato più sottomarini possibili.

Apparentemente non hanno restrizioni: possiamo portarli ovunque, purchè in gruppo. Di fatto, emergono strane regole. Durante una visita guidata della città era prevista una visita al duomo. Ma arrivati davanti alla cattedrale, con la guida che già li aspettava sulla soglia, Mr.Li e Mr. Lu hanno puntato i piedi: non si poteva entrare in una chiesa. Esiste un solo tempio pensabile: quello in onore di Kim-Jong-un. Ora io sospetto che questa non fosse proprio l’intima convinzione nè di Mr. Li nè di Mr. Lu – penso piuttosto che i poveracci si preoccupassero giustamente della loro pagnotta, e forse anche peggio, una volta tornati a casa, se fossero stati ripresi dalla troupe televisiva che li segue ovunque mentre si trovavano in una chiesa cristiana. Penso questo. E lo pensa anche Morten, il regista, che conosce bene le finezze e i giochi di equilibrio a cui si è costretti tutti, noi e loro, nel frequentarsi.

Fervono le prove, imperversano i bigliettini, nascono amori e si provano costumi. Si ripassa la parte, ognuno la sua, in attesa della prima lunedì. mercoledì ripartono, e saranno lacrime.

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È possibile?

1 settembre 2013

C’è un paese che è in uno stato di guerra permanente, e uno che non ha praticamente conosciuto grandi guerre sul suo suolo. 

Un paese che è probabilmente il più segregato della terra, e uno i cui abitanti viaggiano come quasi nessun altro. 

Un paese che è comunista e poverissimo, tranne per un’elite di privilegiati, e un altro che è il piu ricco del mondo, dove la socialdemocrazia ha praticamente livellato di fatto le differenze economiche e sociali.

C’è un paese dove ancora esistono campi di concentramento, e un altro in cui è proibito picchiare i figli, non si boccia a scuola e dove persino gli assassini piu efferati vivono in celle confortevoli e giocano a basket. 

C’è un paese che minaccia continuamente di bombardare con armi atomiche altri paesi, e un altro che spende miliardi, cervelli e schiere di diplomatici per lavorare per la pace, nell’ingenua indomita speranza che sia possibile.

Ma anche: c’è un paese che è governato da un dittatore e la sua casta di militari privilegiati, e un altro il cui governo lo condanna. Ma questo stesso governo sostiene e collabora con dittatori, politici corrotti, terroristi in altri paesi, senza condannarli nello stesso modo.

Cosa possono avere in comune? Come si vedono gli adolescenti che abitano i due paesi? Come si rappresentano? E come vedono gli altri? È mai stato fatto questo esperimento? Ed è possibile, ha un senso?

Morten Traavik è un regista e attore di teatro norvegese che da anni ha contatti di lavoro e scambio culturale con la Corea del Nord. Il suo ultimo progetto si chiama Work in Progress, e verrà presentato nell’ambito del Festival Internazionale di arte scenica “Bastard” di Trondheim.

L’idea è semplice e paradossale: un gruppo di tredicenni norvegesi incontra un gruppo di tredicenni nordcoreani. Entrambi i gruppi, che non si sono mai incontrati prima, hanno una settimana di tempo per rappresentarsi, e per trovare una forma di discorso comune: chi siamo? come funzionano i nostri stati? cosa sappiamo fare? cosa significa far parte di una nazione? cos’è la propaganda? come si gioca insieme? e sicuramente molto altro.

Una cosa è certa: questo non è mai stato fatto prima.

Il contrasto tra dieci ragazzini di una scuola musicale d’elite nordcoreana, addestrati alla performance musicale perfetta in una società che non consente opposizione nè espressione non codificata, che non hanno mai messo piede fuori dal loro paese,  e dieci ragazzini norvegesi allievi di una scuola steineriana, abituati ad esprimersi liberamente e a discutere regole e autorità, cresciuti con internet e con accesso praticamente illimitato a tutto, non potrebbe essere più forte.  Traavik lo sa, e gioca su questo: un incontro tra antitesi potrebbe venir fuori qualcosa. Magari anche solo una possibile rappresentazione di come la realtà sia complicata, e come essa sia visibile con occhi diversi, e come le sue contraddizioni possano essere rese visibili.

Domani arrivano i coreani. Accompagnati da due interpreti – sorveglianti, vivranno in un albergo del centro, e per la prima volta vedranno l’occidente, il fiordo, la nostra scuola sgangherata e biodinamica. Mi chiedo cosa penseranno di noi, come comunicheranno, come comunicheremo.

La prima dello spettacolo sarà il 9 settembre: festa nazionale in Nord Corea e data delle elezioni parlamentari norvegesi. Non mancano le critiche, le polemiche, la curiosità dei media: una troupe televisiva seguirà le prove per una settimana. Io sono soprattutto curiosa.

Mia figlia, che è nel gruppo norvegese, per l’occasione si è comprata un ukulele. Non si preoccupa minimamente di andare in scena, anche se non ha ancora idea di cosa dirà: pensa di comporre una canzone sul movimento dei Verdi. O, forse, di improvvisare un numero di parole al contrario, la sua specialità. I massimi vertici di Pyong Yang guarderanno la registrazione: chissà se piacerà al Grande Kim.