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La betulla (2)

20 ottobre 2014

L’infermiera bruna sa il mio nome. In realtà non è poi così strano, anche se io non gliel’ho mai detto, loro hanno le loro cartelle dove annotano tutto, e sicuramente oltre al nome di mia madre c’è anche il mio, anche perchè mio padre non ha altri parenti che noi, cioè me, visto che mia madre formalmente non è più neanche parente. Mio padre ha solo me. L’infermiera bruna sbaglia leggermente la pronuncia del mio nome ma non importa, lo dice perchè devo risponderle.

Le rispondo che ho capito benissimo com’è la situazione, e dicendolo mi pare di riuscire ad assumere un’aria molto naturale, ma lei insiste a guardarmi sorridendo come se si aspettasse altro, e allora mi chiede se ho capito che papà sta morendo, anzi dice che lei si stava chiedendo se l’avevo capito. Le dico che naturalmente l’avevo capito, e che è per questo che sono qui, e spero che lei ci creda. Mi chiede come mai mia madre non viene più, le rispondo non lo so, mi dice allora che devo dire a mia madre che contatti l’ospedale, anzi che contatti lei, che le deve parlare. Dico va bene, e ora vorrei davvero che mi lasciasse tornare alla mia sedia e anzi mi volto per andare via, e allora lei mi tocca. Mi prende il braccio con la mano e cerca di guardarmi negli occhi ma io mi libero da quella mano e torno in camera.

Mio padre ora è sveglio o almeno mi pare, perchè non mi avvicino, anche se lui mi guarda, perchè potrebbe sorridermi e non ha proprio le labbra adatte per sorridere adesso. Vedo che solleva le dita come per un saluto, ma le dita si muovono a caso e come con molta fatica, e mi chiedo se per caso non mi stia facendo cenno di avvicinarmi. Per questo motivo riprendo a leggere il mio fumetto, e quando alzo gli occhi s’è addormentato di nuovo.

Ma non è che dorme: è come se ogni tanto andasse via. Resta lì, ormai non si muove più, ma è via. Quello che resta è l’odore un po’ marcio come di fogliame e qualche respiro, ogni tanto più profondo degli altri. L’infermiera bruna deve aver finito il suo turno, perchè è entrata quella bassa. È sempre un po’ trafelata, forse perchè è più giovane. Ha il viso accaldato e le mani piccole come una femmina hobbit. Lei, non riesco a immaginarla senza l’uniforme, voglio dire senza vestiti. Non mi incuriosisce proprio. Mio padre apre gli occhi e la guarda. Lei lo chiama per nome e gli dice che bisogna cambiare la cassetta del perfusore, dove sta la morfina, perchè è quasi vuota. Lui fa un cenno impercettibile di assenso ma mi chiedo se davvero ha capito. L’infermiera bassa esegue l’operazione rapidamente: tira fuori dalla tasca il ricambio, toglie dal perfusore quello quasi vuoto e lo sostituisce. Poi digita codici sul tastierino, e chiede a mio padre se vuole una dose. Lui non risponde, la guarda ma non risponde. Da un po’ di tempo ha smesso di rispondere ogni volta. Risponde solo a volte, quando meno te lo aspetti.

È strana questa cosa: per tutto il giorno sono inseguito da sguardi, e la sera divento inseguitore. La testa di mia madre è china sul piatto e io cerco i suoi occhi, ma lei guarda lo spezzatino o la bottiglia o, se è in soggiorno, guarda la tv, lei che non l’ha mai guardata. Al mio rientro, pone la domanda di rito “come sta papà” sempre da un’altra stanza, con voce stentorea, falsamente interessata. La mia risposta, sempre breve e diffusa, sembra sempre soddisfarla. Non so neanche più cosa rispondo, qualcosa come “lo stesso”, anche se non è vero che è lo stesso, ma non posso mica dirle delle caviglie come sacchi di fluido maculati, o del respiro sempre più piatto, inframezzato da sospiri, rari e profondi come urla senza voce. Non posso mica dirle che si rivolga all’infermiera bruna. Devo prima catturare il suo sguardo, e non è per nulla facile, è come quando cerchi di acchiappare un mostro alla playstation e ti scappa saltando e devi come prevedere il punto preciso in cui il cursore della tua arma incrocerà il suo salto e potrai annientarlo. Perfect play.

Ma mia madre ha alzato la testa e mi sta guardando. Mi hanno telefonato dall’ospedale stamattina, dice. Poso la forchetta e continuo a masticare, forse anche più a lungo del necessario, come fanno nei film. Dice che papà sta molto male, continua. Mi verso dell’acqua, la bevo a piccoli sorsi. Perchè non me l’hai detto, mi fa. Non c’è rimprovero nella sua voce. Pare sinceramente sorpresa. Dico perchè, ci saresti andata? Non risponde. Il mostro è nel mirino. Invece poso il bicchiere ed esco dalla stanza.

Le infermiere dei porno hanno strane divise. Hanno sempre la gonna, ad esempio, non i pantaloni informi che usano quelle vere. E le loro divise sono spesso troppo attillate, a volte addirittura con una grossa croce rossa sulle tette. Ma tanto poi le tolgono. E mentre guardo e mi sento indurire sento il pianto di mia madre dalla stanza accanto. Lo sento nonostante la cuffia e quindi dev’essere proprio forte. Alzo il volume in cuffia e i rantoli dell’uomo che scopa da dietro l’infermiera e i gridolini di lei piegata in avanti coprono il pianto di mia madre. A questo punto mi basta sostituire la faccia anonima di questa tizia con quella dell’infermiera bruna, avere qualche minuto di pazienza e un fazzoletto di carta a portata di mano. Quando poi tolgo la cuffia, di là c’è silenzio.

La stanza mi appare diversa, più vuota. Non capisco subito cos’è cambiato, ma poi mi accorgo che hanno tolto quella specie di attaccapanni dove sta appesa la sacca dei fluidi. Infatti mio padre non ha più la cannula infilata sul dorso della mano. Al suo posto c’è un cerotto bianco, che sembra più bianco perchè la mano è giallognola. È anche cambiato il suo viso, il naso spicca come il becco adunco di un uccello e ha gli occhi più infossati. Mia madre è appena uscita dalla stanza, piangendo. Solo allora sono entrato io, e già che ero in piedi mi sono avvicinato. Era tanto che non mi avvicinavo. Non credo che stia morendo proprio adesso, perchè allora credo che me l’avrebbero detto, qualcuno me l’avrebbe detto. Infatti, respira. Ma non sempre. Respira ogni tanto, e quando lo fa, il petto si alza appena. Mi sa che muore. Mia madre sicuramente l’ha capito, e per questo è corsa via. È morto già. No, respira: dalle labbra di betulla esce un odore acido di resina. Forse dovrei fare qualcosa: dovrei fare qualcosa?

Sulla betulla si è posato un uccello dal becco adunco, con gli occhi socchiusi come la civetta che mio padre mi fece vedere una volta. L’aveva trovata in garage, c’era entrata e non sapeva più uscire. Dopo un po’ era riuscito ad acchiapparla: gli si era posata sul pugno e teneva gli occhi socchiusi come lui adesso, per proteggersi, o per sembrare debole. O forse era debole. La liberammo posandola su un ramo del ciliegio, in giardino. Volò via.

Qualcosa vola via. Lo vedo. Sono qui solo e lo vedo mentre vola via: un colpo d’ala. Un millisecondo e prende il volo con uno scatto rapido. Il ramo è vuoto, ora. È inverno e passi affondano nella neve. Risalgo il sentiero con fatica tra i rami tirandomi dietro lo slittino e mio padre mi aspetta in cima, altissimo, e il sole basso che ha alle spalle ne illumina la sagoma. Non vedo il suo viso. Sfioro un ramo e mi cade sul collo la neve come dita gelate, è l’infermiera bruna che ha le dita gelate e io ho solo la maglietta anche se è inverno, mi ha preso il braccio e mi gira verso di sè. Appoggio la testa sulla sua spalla bianca, chiudo gli occhi e guardo lo slittino scivolare velocissimo sul pendio.

 

 (fine)

 

Un commento

  1. senza fiato



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