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L’ultima visita

28 aprile 2015

L’elicottero del salvataggio aereo sta atterrando sul tetto della clinica, ma non viene a salvare me. Guardo dalla finestra l’elica che affetta il cielo color azzurro vena. Il rumore del motore copre le parole della donna che mi parla. La manica a vento pende quasi inerte, vuota: è estate, l’aria è ferma: ho anche  smesso di sudare.

La donna che mi parla porta un rossetto di una sfumatura metallica che riflette la lama lucente del giorno senza notte. Nelle ore in cui non dormo, lo stesso riflesso metallico lo emana il vetro della mia finestra: lo riconosco nella luce bianca che non muore. La donna che mi parla porta un camice bianco e vuole sapere cosa ho mangiato ieri. Ha davanti a sè una specie di lista, in mano una penna. Ha un anello d’argento all’anulare destro, con cinque piccoli brillanti.

Qualcuno ha spento il motore dell’elicottero, e la voce della donna che mi parla acquista volume. Fatico a respirare. Potrei rispondere che ieri ho mangiato una bottiglia di whisky e due birre piccole, neanche tanto, considerando, ma allora quelle labbra metalliche perderebbero forse la loro curvatura, che è l’unica cosa che ho oggi, che oggi è per me. Quindi dico che non ricordo. Non ho quasi fiato.

Ma non è la malattia a togliermi il fiato. Da bambino era l’odore di gomma e sudore della palestra  e le mani sudate che stentavano a reggere il mio peso sottile, o il cloro a bruciarmi le narici quando mi tenevano la testa sott’acqua, la tosse convulsa della prima sigaretta, i pugni immotivati di un compagno di bevuta conosciuto per caso, la prima e ultima volta che ebbi davanti il sesso di una donna, i suoi occhi chiusi per non guardarmi, il viso girato verso il muro.

Dove va il fiato che manca? C’è qualcun altro a cui va di diritto, i compagni forti che riuscivano ad arrampicarsi, quelli che trovavano lavoro, ragazze, che ancora vedranno altri autunni dopo quest’estate cianotica e scivoleranno su altri inverni, eleganti coi loro figli sulle piste innevate? Va a mia madre, che ancora mi aspetta ogni sera in cucina e si alza appoggiando le nocche sul tavolo e mi comprerà l’ultimo regalo?

Oppure alimenta altre atmosfere, il fiato che mi manca: forse c’è  un pianeta dove l’atmosfera è fatta del respiro di tutti quelli senza, i nati morti, i morti piccoli, i morti giovani – altri lo respirano, ignari, e corrono e ridono fino a quasi soffocare, ma quasi: poi tornano seri e si riprendono, abbattono alberi e scalano montagne e le loro donne hanno lunghi sospiri di piacere.

La donna con le labbra curve ora mi chiede se ultimamente mi sento stanco. Le sopracciglia sottili si sollevano impercettibilmente. Più del solito? Sì, più del solito. Allora fa una crocetta su uno schema, probabilmente alla voce “piu del solito”, che sta probabilmente subito sopra alla voce “moribondo”, poi viene “stecchito”, infine viene un giorno di tarda estate e le lamelle sottili dei salici che oscillano al vento indecise tra il grigio ed il verde, e l’aria già quasi autunnale, e viene il viso tirato di mia sorella che sostiene mia madre accanto alla mia fossa.

La donna che mi parla, con le labbra curve, ha poggiato la penna sulla scrivania. “Allora ci vediamo la settimana prossima? Se qualcosa non è chiaro, chieda pure.” Mi accorgo che non l’ho mai guardata negli occhi. Forse li ha scuri, color nocciola o neri, o forse verdi, o azzurri, non lo so. I miei, sono incolori dietro le lenti. Eppure, è tutto molto chiaro.

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